domenica 5 maggio 2013

Ade


Era da sempre in quella prigione, da sempre.
Non aveva nozione di quando la sua prigionia avesse avuto inizio, forse da quando era nato; o più probabilmente le mura si erano ristrette gradualmente con gli anni, a cominciare dalla sua infanzia. Lo  spazio era angusto e in penombra, edificato nel cemento grigio, gli unici colori che vi si trascinavano all’interno erano le diverse sfumature della cenere.
Eppure in quel mare d’ombra non era da solo, altri detenuti vivevano la sua stessa sventura, una marea di corpi umani si avvicendavano in quelle quattro mura, larghe a dismisura per contenerli tutti, eppure paradossalmente strette.
Ognuno di loro era intensamente assorto nelle proprie mansioni giornaliere, lo spettacolo era il più vario che si potesse ammirare.
c’era chi correva da una parte all’altra della cella senza curarsi di dove stesse andando o del perché, semplicemente correva senza essere consapevole di nient’altro.
C’era poi chi collezionava sassi, passava l’intera giornata a cercarne qualcuno in ogni anfratto, in ogni centimetro già esplorato, a sgretolare pezzetti di muro ricavandone pietruzze. Poi li ammucchiava e si faceva vanto di quanti ne avesse raccolti, trasformando quella miserabile illusione nel proprio orgoglio.
C’era chi per passare il tempo si chiudeva nella propria mente, pensava e pensava,  e nel farlo diventava inesorabilmente ottuso. Si creavano così piccole filosofie sulle varie tonalità del grigio e quale fosse la più appropriata, giudizi sul comportamento dei carcerati e sul loro aspetto, visioni così ristrette e complesse che la semplice e nuda cella non vi riusciva ad entrare tutta.
C’era anche chi si impiccava, ma questa era una netta minoranza, i più preferivano vivere le loro vite inventate, e all’ombra dell’eterno crepuscolo arrivavano a convincersi di essere felici.
Anche lui era come loro, come alcuni di loro, e meccanicamente correva da una parte all’altra di uno strano percorso, con la rincuorante e cieca giustificazione che si ha da farlo. Erano settimane, mesi, anni che si spostava ritmicamente da una parte all’altra della cella in un gioco demente, e nel farlo non aveva mai avuto nemmeno il tempo di guardarsi attorno.
Quel giorno però era diverso, quel giorno era il suo giorno; e così, quasi senza motivo, decise di fermarsi. Il cervello gli diceva di rimettersi a correre, i muscoli guizzavano pronti a spronarlo alla nuova corsa, il cuore gli martellava le orecchie per non farlo pensare.
Eppure non si rimise a correre.
Per la prima volta si fermò, consapevole di essere fermo.
Per la prima volta diede uno sguardo a cosa lo circondava. Per la prima volta prestò ascolto ai rumori circostanti, e scoprì un infinità di sfumature e suoni. Intorno a lui c’era un mondo pieno. Allora fece un profondo respiro, una gran quantità di odori gli invase le narici, ne fu stupito dal momento che non era più nemmeno sicuro di sapere come si fa ad annusare. In quel lungo momento si guardò attorno, e con gli occhi riuscì a catturare la grandezza della cella, le sfumature della luce buia che entrava dalle inferriate, la grande bellezza e la soffocante desolazione di quel bizzarro posto. Così fece ciò che nessuno aveva mai fatto, si diresse con passo lento e deciso verso le inferriate alle finestre. Le strinse con le mani fino a sentire il freddo sui suoi palmi, avvicinò la faccia e guardò fuori. Il mondo esterno esplodeva in una moltitudine di colori: c’era il verde degli alberi, l’azzurro trasparente dell’acqua, il solido ocra delle rocce, il profondo blu del cielo spruzzato di nuvole, la calda luce del mondo libero.
Assorbito da quella visione cercò di abbracciare l’intero paesaggio con gli occhi, lanciando lo sguardo oltre il sole.
E capitò un miracolo, ora il mondo che osservava aldilà delle sbarre non esisteva più; mentre quello dal suo lato stava sbocciando in una primavera di colori. Senza rendersene conto si era ritrovato dall’altra parte delle sbarre. Era sempre stato dall’altra parte delle sbarre!
Una infinita gioia era esplosa dentro di lui, la cella non era mai esistita, i muri grigi ed angoscianti non erano mai stati; nei suoi anni non s’era mai accorto di essersi sempre scaldato al sole dell’eterna primavera.
I suoi ex compagni di cella, non avevano avuto la sua comprensione, si agitavano ancora convulsamente convinti di vivere in cattività, sette miliardi di corpi.
Non erano persone ma spettri, macchine di carne che danzavano.
Ora non aveva importanza, all’orizzonte si vedevano persone libere che si aggiravano nei profumi della magnolia.

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